“Se senti una voce dentro di te che dice “non puoi dipingere”, allora a tutti i costi dipingi e quella voce verrà messa a tacere”
Vincent Van Gogh è stimato uno dei pittori più celebri di tutti i tempi.
Rappresentò il suo amore per la vita e, al contempo, la sofferenza interiore che lo accompagnava. Nonostante abbia iniziato tardi a dipingere, all’età di 27 anni, fu un artista estremamente prolifico, autore di più di 900 disegni. Da ognuno di essi emerge la cifra di un’esistenza travagliata, segnata dai disturbi psichici, che certamente influenzarono la sua arte. Fu ossessionato dalla ricerca di un riconoscimento, ma non trovò i riscontri attesi. Affidò ai “Mangiatori di patate”, esempio della sua pittura sociale, la speranza di una svolta nella sua carriera, come si evince da una lettera indirizzata al fratello Theo. Ciò non avvenne. Infatti, in vita vendette solo un quadro, poco prima di morire: “La vigna rossa”. Sarà l’inizio di un successo postumo destinato a durare nei secoli.
Una personalità tormentata
Quello di Van Gogh non era un carattere comune. Tendeva a isolarsi; al tempo stesso, era alla costante ricerca di amore e amicizia. Non ebbe fortuna con la gente: il suo comportamento appariva ridicolo. Agiva, pensava, sentiva in modo diverso dai coetanei, mostrava un’aria assorta e malinconica, ma quando rideva, rideva con giovialità, e allora il suo viso si rischiarava. In amore venne respinto. Ebbe poche amicizie, tra cui Paul Gauguin, con il quale convisse per un breve periodo ad Arles. Fu difficile per Van Gogh adattarsi alla società: alla fine ne divenne estraneo. Nella sua vita non sembrava avere una meta, ma era animato da una profonda fede: tutto in lui è slancio religioso. Convinto di essere chiamato dal destino, la sua fede non doveva niente alla chiesa o ai dogmi. Guardò alla sostanza, alla profondità dell’esistenza. Era dotato di un forte senso etico, di una sincerità assoluta e di una generosa umanità. Questa bontà d’animo permarrà nonostante la psicosi; anzi, in essa si consoliderà. Un esempio del suo temperamento schietto si evince già dai tempi in cui lavorava presso un antiquario: anteponeva la qualità e il valore artistico delle opere a qualsiasi interesse commerciale. Non ebbe successo come insegnante, dove riceveva richieste estranee alla professione pedagogica; non ebbe fortuna nemmeno come teologo, perché gli studi accademici lo allontanavano dalla sua vera vocazione: diffondere il Vangelo tra gli uomini.
Niente sembrava adatto per Van Gogh. Di questo periodo rimangono le parole scritte al fratello Theo: “In che cosa potrò riuscire, non potrei servire o riuscire utile a qualcosa…”. Da questo sconforto emergerà la sua vera vocazione, destinata a colmare la vita dell’artista: “Mi sono detto: riprenderò la matita, mi rimetterò a disegnare, e da allora mi sembra sia tutto cambiato per me”. Il fratello Theo sarà un riferimento costante tanto nella vita del pittore quanto nella sua arte, che grazie a lui conserva, insieme alla vena malinconica, una traccia di serenità.
L’arte e la vita
Van Gogh alterna momenti di gioia a momenti di cupa tristezza. Questa ambivalenza si riflette in modo evidente nelle sue opere. Vita e arte, per Van Gogh, formano un’unità indivisibile. Possiamo percepire la felicità dell’artista osservando “La casa gialla” ad Arles, dove appare inebriato dalla bellezza della natura e pensa di aver finalmente trovato un posto in cui stabilirsi; resterà qui solo pochi mesi, insieme all’amico Gauguin. La felicità dura poco: qui avvenne il celebre taglio dell’orecchio, forse a seguito di una lite dopo aver appreso la notizia delle imminenti nozze del fratello. Dopo la guarigione si dedica alla pittura in modo forsennato, ma le crisi diventano sempre più frequenti. Curiosamente, un altro momento di serenità coincide con il ricovero a Saint Rémy de Provence: “Non sono veramente malato di mente, ho voglia di lavorare e non mi stanco”, si legge in un’altra lettera al fratello.
Nella “Notte stellata”, la sua salute mentale risulta, invece, irrimediabilmente compromessa. La tela rappresenta un’idealizzazione di ciò che il pittore osserva, vivendo ormai tra sogno e realtà. Si notano pennellate impetuose e netti contrasti cromatici. “Spesso penso che la notte sia più viva e più riccamente colorata del giorno”, afferma nelle Lettere a Theo. Le luci alludono alla consapevolezza della solitudine e della malinconia dell’artista, smarrito e preda delle allucinazioni. La disperazione si avverte anche nel dipinto “Sulla soglia dell’eternità”, che rappresenta un uomo schiacciato dai propri drammi interiori, dove viene messa in scena l’impotenza dell’artista che soccombe al dolore.
La tecnica di Van Gogh è caratterizzata da un uso eccentrico del colore, di cui il pittore aveva una percezione alterata: alcuni riconducono le sue distorsioni cromatiche all’epilessia e al fatto che assumesse una pianta medicinale che lo portava a vedere tutti i colori tendenti al giallo; altri ritenevano che fosse solo un gran bevitore di assenzio.
Indagando i soggetti prediletti dell’artista, si nota la scelta di quelli umili e modesti. Il mondo che lo circonda diventa per lui un mito: lo enfatizza e lo trascende senza sforzo, gli viene naturale tendere la sua energia fino ad afferrare il senso del reale. Raffigura il necessario. Dipinge “in modo che chiunque abbia degli occhi ci possa veder chiaro”, ricorrendo al simbolismo dei colori per comunicare le passioni umane e stabilire un legame empatico con l’osservatore, che si immedesima nelle sue opere con una connessione sinestetica, quasi magica.
Le pennellate caotiche, di una varietà infinita, creano agitazione e un movimento inquietante: la terra dei paesaggi pare vivere, gli alberi sono come fiamme, il cielo palpita, tutto si torce e si tormenta.
Ci si domanda quale sia il soggetto raffigurato; l’astrazione permette l’incontro tra l’immagine e l’essenza degli oggetti. L’arte di Van Gogh trasmette un’abbondanza infinita ma, anche nella perfezione, non è che un mezzo: il suo obiettivo è consolare.
Il rapporto tra l’arte e la malattia
Van Gogh, con la sua arte, vuole lasciare un segno. Nel suo lavoro si stanca esageratamente e consuma la propria ragione, ma allo stesso tempo vede in esso una “distrazione salutare che regola la sua vita…”, per questo non può privarsene. Il furore creativo lo rallegra e lo esalta. Quest’entusiasmo gli fa passare giornate intere senza accorgersi dello scorrere del tempo: le pennellate vengono “come parole in un discorso o in una lettera”, attenuando la solitudine e allontanando i pensieri intrusivi. Sostiene di trovare nel lavoro una lucidità e “un accecamento da innamorato”, non riesce a fermarsi neanche quando si sente “usato dal lavoro”, al punto da non riuscire a svolgere nessun’altra attività. Nonostante ciò, non è mai pienamente soddisfatto di sé: ritiene le proprie opere mai “abbastanza buone”, non le giudica mai “compiute”.
Immagina con entusiasmo lo sbocciare dell’arte futura, alla cui semina è consapevole di aver partecipato, ma immagina il pittore del futuro completamente diverso da sé, disprezzando il proprio stile di vita disordinato.
“Sto lavorando come un ossesso, ho più che mai un furore sordo di lavoro… lotto con tutta la mia energia per rendermi padrone del mio mestiere, dicendomi che se ci riesco, sarà questo il miglior parafulmine per il mio male”.
La malattia non è creativa in sé: il suo talento preesiste, ma questa condizione di infermità accelera l’evoluzione artistica. Al contempo, attraverso l’arte, l’atteggiamento di Van Gogh di fronte alla malattia si modifica: egli dipinge per dominarla.
Nonostante le sofferenze, l’artista inseguì strenuamente la sua vocazione per la pittura, pur non sentendosi degno di lei. Non fu apprezzato in vita, in quanto considerato strano, attraversato dalla follia. Tuttavia, tramite i suoi quadri, riesce a trasmettere ancora oggi le forti emozioni che provava e a suscitarne di nuove in noi.
Sofia Cannone, IV LES